Franco Zaio – Those important years – recensione
by Diego Curcio *
Those important years di Franco Zaio è uno dei dischi più belli che abbia ascoltato quest’anno. E non me ne importa niente che si tratti un album di cover suonato da un mio amico fraterno, in cui canta (in due pezzi) una carissima amica come Francesca Pongiluppi e che sia stato registrato da un altro super amico come Berna.
Non è colpa mia se conosco gente speciale, che fa cose bellissime. Ciò che conta è che ascoltando queste 14 rivisitazioni acustiche di altrettante canzoni degli Hüsker Dü – e cioè IL GRUPPO – la pelle d’oca sale veloce lungo le braccia e il cuore corre in gola come una macchina impazzita.
E’ davvero difficile capire se le emozioni fortissime che questo disco è capace di sprigionare sin dal suo primo pezzo (la maestosa “Standing in the rain”) siano frutto dell’intesa interpretazione di Franco o siano la naturale conseguenza del fatto che gli Husker Du, in meno di dieci anni di vita artistica, siano stati capaci di scrivere una miriade di pezzi incredibili. Forse, come banalmente si dice in questi casi, sono vere entrambe le cose. Anche se la chiave di volta del disco è innegabilmente la voce di Zaio, più vicina alla dolcezza di Hart che all’irruenza di Mould, ma comunque lontanissima da qualsiasi maldestro tentativo di imitazione.
“Those important years” è un tributo suonato – e soprattutto cantato – col cuore, da un ragazzo di 50 anni a cui “Warehouse” e “Zen Arcade” hanno letteralmente cambiato la vita. E infatti la scaletta pesca a piene mani da questi due dischi, ma anche da “New day rising” (con tanto di omaggio in copertina), “Flip your Wig” e “Candy apple gray”: insomma gli Husker Du più melodici ed eccitanti, quelli del periodo di mezzo e del glorioso epilogo su major.
Ma anche quelli capaci di erigere un muro di suono denso e psichedelico, che nella versione di Franco Zaio torna, invece, alle origini scheletriche voce-e-chitarra, senza perdere un briciolo di magia. Anzi, ascoltando “Those important years” si capisce benissimo come molte di questa canzoni siano nate, probabilmente, in questo modo: con Bob e Grant che imbracciavano la loro sei corde e, dopo aver bevuto un paio di lattine di birra del discount, buttavano giù una melodia e tre accordi sghembi (Norton intanto si lisciava i baffi a manubrio e si preparava un hamburger).
Certo, nel disco ci sono anche arrangiamenti più complessi come in “Green eyes”, dove spunta la chitarra psych-folk di Matteo Bocci dei Fenomeni e in “Book about Ufos”, uno dei pezzi più belli di questo tributo, trasformato in una sorta di gospel indù, con tanto di sitar, suonato in onore della dea Shiva appena atterrata da Marte. E poi ci sono “Pink turns to blue” e “She’s a woman (and now he is a man)” cantante entrambe da Francesca Pongiluppi: la prima con una voce dolorosa e in stato di grazia e l’altra in duetto con Franco, in un crescendo potentissimo.
E poi “These important years” – uno dei miei pezzi preferiti degli Huskers – suonata con meno irruenza rispetto all’originale, quasi come se si trattasse di un’amara constatazione del presente, più che di una celebrazione di ciò che è stato; e ancora: “Sorry somehow”, altra paela assoluta dell’album, con la voce di Franco che insegue la chitarra o la furia disperata e sonica di “Something a learned today”.
A chiudere il disco un brano giudicato a torto minore di “Warehouse” come “Bed of nails”, qui trasformato in una cavalcata noise sporca e disturbante, grazie alla metal machine guitar di Berna e alla voce distorta di Franco, pronta a intonare l’apocalisse. Che dire? Se siete fan del Husker Du spero vivamente che dopo appena due righe di questa stupida recensione abbiate spento il pc o il telefonino e siate usciti di casa per cercare di procurarvi questo album bellissimo. Tutti gli altri, e cioè coloro che non sanno minimamente chi siano Mould, Hart e Norton, si vergognino e chiedano umilmente scusa.
*Scrittore, studioso, appassionato ed esperto di punk e dintorni
Articolo originale alla pagina HuskerCore