Vogliamo una seconda “seconda serata”
by Martino Serra
photo by Francesca Traverso
Quando sei alla seconda serata di un festival di quattro giorni, puoi già dire di essere a metà del viaggio. E così è stato. La seconda serata del XIII Festival delle Periferie è stata un vero e proprio viaggio. Si, proprio come quando entri in macchina e fai un viaggio a caso con gli amici, parti con l’incertezza di non sapere cosa succederà, nonostante la mamma ti abbia preparato la borsa frigo con i panini.
Alle 21,15 il presidente Giannini era sparito, si narra fosse andato a prendere i Melampus, eravamo in ritardo di un quarto d’ora e senza il via del direttore d’orchestra, ho fatto di mia iniziativa, ho acciuffato i Technoir al tavolo del bar che erano impegnati a fare baldoria con gli amici, quasi dimenticandosi di essere la band d’apertura, no anzi, quasi dimenticandosi di essere una band e insieme abbiamo scavalcato le siepi che portano al backstage. Il viaggio era appena cominciato. Lo sparuto pubblico della prima ora era seduto in prima fila e subito non sembrava voler collaborare, stava li, in attesa del rito cerimoniale d’inizio.
Il duo Technoir, Jennyfire e Alex Phoenix, si è avvalso della collaborazione di Nikolaos, musicista degli Audiograffiti, band di cui fanno comunque parte Alex con la collaborazione di Jenny, nei loro progetti esterni. Hanno salutato il pubblico e iniziato lievemente con quel loro electro/soul molto personale che ha portato i presenti a rendersi conto fin da subito della professionalità dei musicisti, non chiamati a caso dall’associazione Metrodora, sempre attenta al profilo qualitativo e l’accurata selezione degli artisti. Qualche minuto di musica leggera, poi Jennyfire, spinge la voce come una vera cantante soul, si quelle che si sentono solo nelle radio straniere, mandando in completo visibilio il pubblico e attirando così anche quelli che da lontano scrutavano seduti ai tavoli del bar. Allora la serata ha preso davvero inizio. Jenny spingeva la voce e negli assoli di corde dei fratelli Finizio, contorceva il corpo in un ballo lento e sensuale. Francesca, la fotomaker ufficiale dell’evento, scatta un paio di foto, poi si ferma un attimo, si volta a guardarmi esterrefatta e mi fa un espressione strana con il viso, come a dirmi: “minchia come spacca con la voce sta qua”. Le ho sorriso, perché era la stessa espressione che aveva il pubblico.
Intanto nel backstage del palco, nei tavoli sotto i rami dei verdi e freschi alberi, i Carnival, ridendo di gusto lamentavano la fottuta calura del tramonto e facevano casino come si fa in un pullmann in gita con la scuola. Ho provato a sedarli con la mia videocamera, preparandoli in un intervista di gruppo, una gang interview insomma, ma la luce cominciava ad essere fioca, loro facevano casino e abbiamo dovuto rinunciare.
La loro esibizione è stata una vera sorpresa per il pubblico, che ha apprezzato non solo lo stile boybandesco dei cinque impavidi, ma il loro stile di suonare, di relazionarsi con il pubblico stesso, il saper ironizzare su qualsiasi cosa e non lasciare vuoti sul palco è stato davvero rigenerante per l’atmosfera. Molte le tracce non solo orecchiabili, ma d’eccezione direi e in particolare un ottimo risultato la cover di Ivan Graziani, Monnalisa.
L’entrata in scena dei Malenky Slovos, ha ribaltato un’altra volta la scena. Professionisti ognuno dei proprio strumenti, cantano solo in inglese per il volere del frontman Andrea, mai tornato davvero con la testa dall’America. Uno stile bizzarro e al tempo stesso geniale nel saper combinare questo misto di stile post punk a tematiche prettamente attuali, come l’esasperazione al consumismo, il vuoto della politica, l’orrore della guerra, rifacendosi alle scene dei più grandi capolavori della cinematografia. Ma d’altronde, ci si doveva aspettare di tutto da una band che prende il nome dal gergo di Alex di Arancia Meccanica, che per Malenky Slovos intende “poche spicciole parole”.
Un piccolo scambio di battute sul palco tra me e Andrea dei Malenky e, accecato dalle luci mi accorgo dai fragorosi applausi che era di gran lunga aumentato il pubblico. Era caldo, era divertito, aveva ancora voglia di musica.
I Melampus hanno preparato i loro strumenti con minuzia e professionalità. Angelo, impegnato nella distorsione delle corde della chitarra, al contempo da il via al campionatore e Francesca, composta e discreta, nascondeva il suo fascino dietro il ritmo electro della sua chitarra e quando Francesca delicatamente batteva il tempo con le gambe, Angelo spingeva i suoni incastrando la chitarra nei suoni del synth. E così, immersi nella psicoacustica di quel misto di darkwave e rumorismi di lui, lei faceva sognare il pubblico con la spinta sulle corde e le fluttuanti vocalità d’oltreoceano. I Melampus, hanno così portato sul palco di Villa Bombrini, quei suoni e quel genere e sottogenere che Genova chiedeva da tempo, quello nato a Londra nella metà degli anni 90 e che in questa città, così, da un giorno all’altro è uscito di scena, ma non è mai stato dimenticato.
Abbiamo dovuto chiedere il bis. Non potevano lasciarci andare a casa così.
Ma se non fosse stato per il guardiano che con la sua abbronzata muscolatura ci invitava ad uscire, noi e dico noi tutti, saremmo ancora li, a chiedere il bis a tutti gli artisti. Uno per uno, a turno, di nuovo una volta sul palco, di nuovo una seconda serata del XIII Festival delle Periferie, si una “seconda seconda serata”, tutto dall’inizio, perché un viaggio così imprevedibile non lo facevamo da tempo.