Recensione: The Liar Trump – Colours – 2015
by Roberto Giannini
Atteso esordio per gli spezzini The Liar Trump, band tra le più interessanti del panorama ligure, vincitori nel 2014 di Wanted1Maggio. Dopo aver partecipato ad una discreta serie di festival in giro per il Nord Italia (ascoltabili dal vivo cliccando qui), la band si è chiusa in studio per la realizzazione di questo Colours, uscito sotto l’egida della nuova ed interessantissima label La Clinica Dischi.
Per chi ha seguito, come il sottoscritto, la band nelle sue scorribande dal vivo, il primo ascolto di questo lavoro su lunga durata non sorprende affatto. L’ottima qualità delle composizioni e degli arrangiamenti infatti non si discostano più di tanto dalle sonorità che la band porta sul palco. Una proposta quindi molto omogenea e solida, anche se la sua derivabilità può essere immediatamente scorta dagli appassionati di certo rock statunitense a cavallo tra i ’60 e i ’70.
Le coordinate sonore dell’album appaiono già evidenti nel brano d’apertura, Christal elevator blues. Come da titolo, è un blues tra il malinconico e lo spettrale con raffinati intrecci vocali e chitarristici. Melodie tra la San Francisco di fine ’60 e la Seattle di inizio ’90. Segue You will spot me, brano breve, anch’esso di matrice blues con chitarre e voci in grande evidenza, che precede Bad mood, ballad soffice caratterizzata da timpani tribali (Giacomo Lomasti, il drummer), a metà tra lo Stan Ridgway solista e il Paisley style di Green on Red e Rain Parade, nel quale le frequenti pause e la calda voce croonerizzata di Luca Russo creano atmosfere da brividi. Si prosegue con Train , brano dalle atmosfere alla Brian Auger (complice l’ottimo arrangiamento tastieristico di Leo James Manzini) e dalle (solite) melodie raffinate. Like a bomb non ha niente a che vedere con l’omonimo brano dei RATM, ma spazia tra Creedence Clearwater Revival e intrecci vocali che possono ricordare CS&N, il tutto sorretto dall’ottimo riff di basso di Milo Manera e impreziosito da tocchi di flauto estremamente efficaci. Con Observers rimaniamo in piena tradizione americana, con un filo conduttore che lega i Byrds del secondo periodo con gli ottimi e attualissimi Quilt di Held in splendor. Si corre così verso l’ultima parte dell’album, con Canyon, dolce e soffice ballata psichedelica di stampo Mark Lanegan con l’ottima chitarra di Riccardo Lucchini in evidenza, che trova naturale seguito in Shine, con tonalità che sembrano provenire dagli episodi più acustici (l’album omonimo oppure l’unplugged MTV) dei leggendari Alice in Chains. La chiusura dell’album è affidata all’ottima 7th floor, ballata semiacustica che lascia l’ascoltatore con la voglia di sentirne ancora, aspetto non da poco per un album da dieci (anche se tutti di durata inferiore ai quattro minuti) brani.
Esordio più che buono, quindi, con sonorità che nonostante tutti gli illustri nomi che ho citato quale riferimenti, mantiene una sua peculiarità e una distinguibilità immediata nel panorama nazionale. Un pizzico di coraggio in più potrebbe far compiere alla band spezzina il salto di qualità necessario ad una consacrazione anche internazionale.