Nicky Wire – Intimism – 2023 – recensione
Conoscete Nicky Wire? Bassista della band gallese Manic Street Preachers, una delle formazioni di punta del brit pop anni Novanta. Lui, il Nick, non si è solo limitato a suonare il basso ma è stato ed è tuttora il paroliere del gruppo (la scrittura è nel DNA familiare visto che suo fratello è lo scrittore e drammaturgo Patrick Jones).
Tanta musica e parole nel cassetto, a quanto pare, visto che questa sua seconda prova solista reca un titolo sintomatico: Intimate. Stando alle stesse dichiarazioni rilasciate da Wire, tale disco sarebbe un po’ il prodotto coerente di numerosissime idee, intuizioni e sensazioni che, nell’ultimo decennio (pur attingendo da un passato più remoto), hanno avuto modo di allinearsi, sincronizzarsi in una sorta di fissazione spazio-temporale realizzata dal lavoro in questione. C’è un passato che insiste, ma non sempre necessariamente dominato da tensione, anzi, semmai il desiderio di Wire parrebbe quello di estrarre sprazzi di luminosità anche da un’impostazione chiaroscurale in bianco e nero (e la copertina che ritrae il nostro, quando era adolescente, la dice lunga).
Si vocifera che l’album fosse già pronto dal 2021, senza una precisa destinazione. Fu in quel caso che Wire, nel corso di un’intervista a NME, avrebbe raccontato di un’opera fragile ma eclettica; però, sul fatto di divulgarla o meno, beh, si lasciava emergere qualsiasi opzione: dalla distruzione al “regalo” su Bandcamp.
Per fortuna, dai primi di luglio del 2023, Intimate è venuto alla luce e proprio su Bandcamp. Un bel dono non solo per i fan dei Manic Street Preachers, ma anche per chi volesse conoscerlo (mi riferisco ai miei curiosi lettori provenienti dalle nicchie).
Impressioni? Intimate è, prima di tutto, un disco “sentito”, frutto di scavo appassionato: probabilmente, se si fosse padroni della lingua, con testi alla mano, saremmo in grado di apprezzarlo maggiormente. Il range stilistico si mantiene entro i confini di un pop-rock che non disdegna sviluppi indie e showgaze (lo staccato di A Perfect Place to Grow, Keeper the Flame e Saudade): un po’ ce lo suggerisce la stessa grana vocale di Wire che tende verso toni gravi e che, per l’occasione, spesso è raddoppiata, nonché riverberata. Sì, qua e là aleggiano perturbazioni dark.
La ballad iniziale Contact Sheets apre il cuore per solarità, grazie a delicati panneggi di pianoforte e sintetizzatore, quasi a ricordare qualcosa dei Muse o degli svedesi Easy così come certe raffinatezze nella toccante White Musk, dedicata alla madre da poco scomparsa (azzeccate le rifiniture pastello del clarinetto); una slide guitar in Ballad for Baby Blue ci fa capire come nel pantheon di Wire ci possano stare tanto i tipi della West Coast, quanto quelli di un compassato beat; reminiscenze anni Settanta tra Rolling Stones, Faces e Humble Pie in Under California Skies.
Cos’altro mi è piaciuto di Intimate? La parti di chitarra, in cui è evidente lo zampino di James Dean Bradfield dei Manics: notare la struttura ritmica in You Wear Your Broken Heart Like a Dress, il bellissimo solo in Tactical Retreat (se è Bradfield, una delle sue migliori performance in assoluto) e quello in coda al folk elettrico di As the Light Fades Away
E poi la sorpresa che non t’aspetti: Migraine n. 1 e Migraine n. 2, uno strano dittico in salsa jazz con tanto di declazione poetica, quasi un omaggio al Miles Davis di Bitches Brew e al Jim Morrison di An American Prayer con Gav Fitzjones alla tromba.
Riccardo Storti (articolo originale sul blog Asterischi di Musiche)