Le mille Italie del prog
Eccomi qui a riproporre la prefazione che, nel 2011, curai per il CD della Cramps L’Anthologia Progressive. Il mosaico Prog degli anni ’70. La selezione musicale, testuale e le interviste furono opera di Donato Zoppo, mentre in cabina di regia e in sede produttiva c’erano Erik Alfred Tisocco e Alan Bedin. È passato tanto tempo, pertanto mi è parso anche giusto rivedere un paio di cosette all’interno del saggetto.
Ogni volta che si vuole trattare del cosiddetto “progressive rock italiano”, c’è sempre l’azzardo di incorrere in un solido (e solito) luogo comune, secondo cui, tale corrente sia corollario (quindi imitazione) di un ben più ampio movimento iniziato e sviluppatosi nell’Inghilterra dei King Crimson, Yes, Genesis, E.L. & P., Jethro Tull, Pink Floyd et alia.
Oddio – sia chiaro – un fondo di verità c’è; però attenzione, perché si rischia di perdere quell’aspetto – se non originale almeno – “originario” che contraddistingue il progressive rock italiano, ovvero la questione territoriale. Ma prima di giungere al nocciolo geografico del tema, fermiamoci un attimo sui contorni della tradizione musicale italiana, grimaldello fondamentale per capire l’evoluzione del fenomeno.
L’Italia non è l’Inghilterra, nel senso, che i britannici – alle spalle – non hanno avuto la fondante tradizione strumentale e vocale che, dal Rinascimento al Meloodramma romantico, attraverso il Barocco, ha caratterizzato stili e innovazioni, nate e cresciute qui da noi (e solo più tardi diffusesi, come scuola, in Europa). Frescobaldi, Pierluigi da Palestrina, Gesualdo da Venosa, Monteverdi, Vivaldi, Corelli, Locatelli, Tartini, Paisiello, Scarlatti, Pergolesi, Rossini, Bellini, Donizetti, Paganini, Verdi, Puccini, Mascagni, Respighi, Malipiero… solo per citare i nomi più noti. Ebbene, queste radici sono nella e della nostra terra; pertanto, in Italia, il rock di ascendenza angolosassone – preso a prestito dai transfughi del beat (New Trolls, Le Orme, The Trip, “quelli” diventati PFM, etc.) – si troverà a fare i conti con quei signori del passato e non con altri, allorquando si tratterà di mischiare le carte. Pensiamo solo ai lasciti della grande scuola violinistica barocca veneziana e ad una certa predisposizione vocale di estrazione melodrammatica (Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso o di Spitaleri dei Metamorfosi).
Detto questo, va da sé che il solazzo della contaminazione finisca per subire – comunque – influenze (fatalmente) esterne, appena ci si confronta con il jazz e con quel repertorio più contemporaneo (concreto ed elettronico).
L’Italia ne sapeva già qualcosa di “unità”, prima del 1861, infatti è stata la cultura a farla sentire nazione. Più che sulla carta, sulle carte scritte dai grandi letterati che la realizzarono a colpi di divine commedie, orlandi furiosi, canti, sepolcri e promessi sposi.
Sotto, un’Italia da guardare al microscopio, ma così intelligente da non fermarsi al campanile; anzi, talmente giudiziosa da fare ascendere il dettaglio locale a possibile paradigma – se non nazionale – almeno (diremmo oggi) “glocale”.
Il teatro ne è stato un esempio, no? I capolavori nascono al Nord con la Commedia dell’Arte, si normalizzano attraverso la saggezza drammatica tutta veneziana di Goldoni per diventare realtà condivisa con il napoletano Eduardo e con quel felice raggio di sicilianità europea scaturito dalle innovazioni di Pirandello; oppure grazie all’interpretazione del genovese Govi e del veneto Baseggio.
Non la sto prendendo alla lontana, anzi… A riflettere con attenzione, il rock italiano degli anni Settanta replica questa sorta di immancabile sintesi palingenetica, avvenuta in altre arti. Detto in soldoni, quanto nasce a Roma è diverso da quel che si sviluppa a Milano, pur in un simile ambito discografico. Prendiamo due giovani musicisti, entrambi appassionati dei Jethro Tull, uno a Napoli e l’altro a Genova. Decidono di dare forma alle proprie intuizioni sonore, magari condizionati proprio dalle novità del gruppo inglese; però, alla fine, i due prodotti sono sostanzialmente diversi. Perché? Perché la differenza la fa il radicamento territoriale e la storia musicale di Napoli è diversa da quella di Genova… Così come gli Osanna dai Delirium.
Allora, vogliamo squadernarla questa mappa? Eccoci. Il progressive italiano ha quattro capitali: Napoli e Genova da un lato e Roma e Milano dall’altro. Le prime due sono città di mare, di naviganti e pescatori di note, attivi in un porto musicale sempre aperto a qualsiasi influenza. Sbarcihamo nella Genova dei New Trolls, Delirium, Latte e Miele, J.E.T. e Nuova Idea. Che cosa lega questi cinque gruppi? L’organizzazione corale, unica, ma che non ha solo un collegamento “rock” a riferimenti chiave della scena angloamericana (Beatles, Beach Boys, The Hollies, The Zombies). A Genova c’è una secolare tradizione vocale spontanea chiamata “trallalero”, che non ha eguali, se non presso qualche vaga similitudine con altra manifestazioni (circoscrivibili tra Sardegna e Caucaso, passando per i Balcani). Poi mettiamoci che qui nasce anche la canzone d’autore… Nel Ponente ligure, invece, si scorge un ulteriore trend di originalità con il Museo Rosenbach e i Celeste o nel fantasy barock de La Corte dei Miracoli.
Napoli ha una sua canzone, un dialetto espressivo che, per l’abbondanza di parole tronche, potrebbe ben sposarsi con il blues e tutta la musica nera. Sì, Pino Daniele raccoglierà i frutti prodotti dalla semina degli Osanna, Napoli Centrale, Città Frontale, Tullio De Piscopo Revolt Group e Cervello, ma c’è molto di più. Il superamento della melodia si verifica per vie sperimentali diversissime tra loro: riflettiamo sull’enorme divario che possa sussistere tra Ys de Il Balletto di Bronzo e Aria di Alan Sorrenti, eppure si tratta di un cammino parallelo, (s)partito su veicoli differenti.
Milano e Roma sono i centri discografici per eccellenza. Milano ha un’arma in più: è la città italiana a maggiore vocazione europea. Secoli di esterofilia hanno lasciato il segno già dal Settecento illuministico. Negli anni Settanta del Novecento è centro propulsore della controcultura, di label coraggiose (Bla Bla, Cramps e Numero Uno) e di emigranti che cambieranno il volto della popular music italiana (Battiato, Battisti, Formula Tre). A Milano muovono i primi passi la PFM, Rocchi, Finardi, Area, Aktuala, Fortis, Jumbo, Maxophone e dalle periferie arrivano confortanti segnali di rinnovamento (la scena di Vimercate dei Pholas Dactylus e degli E.A. Poe e la Sesto San Giovanni degli Alphataurus; poi, se saliamo fino a Lecco, ci imbattiamo nelle rifrazioni hard del Biglietto Per l’Inferno).
A Roma c’è Mamma Rai, ma anche la prestigiosissima RCA: proprio da quelle parti, un manipolo di jazzisti (e accreditati sessionman) creeranno il primo complesso italiano di jazz-rock, il Perigeo. Però Roma è anche la culla del Banco del Mutuo Soccorso: non si era mai visto sul palco un gruppo con due tastieristi e un cantante dalla voce tenorile, capace di dare spessore a testi impegnati. Dalle cantine romane, inoltre, usciranno i Goblin, la Reale Accademia di Musica, Pierrot Lunaire, Panna Fredda, la Raccomandata con Ricevuta di Ritorno, i Semiramis di un insospettabile Michele Zarrillo, i Teoremi, i Fholks, Il Rovescio della Medaglia, i Metamorfosi, Quella Vecchia Locanda. Molti ragazzi saliranno dal Sud per cercar fortuna nell’Urbe: sarà il caso dei siciliani fratelli Marangolo (Flea On The Honey, Flea e Etna) o dei calabresi Apoteosi.
E l’altra Italia? Fuori dal poker d’assi metropolitano, emergono alcune aree dai tratti distintivi. Torino, per esempio, grazie a ensemble quali gli Arti e Mestieri, Dedalus ed Esagono, è il fulcro del jazz rock tricolore (ma non dimentichiamo, particolari realtà come i Procession, gli Alluminogeni, i Circus 2000 e, in Piemonte, La Locanda delle Fate e gli Odissea).
Firenze vedrà alcune esperienze di un raffinato prog sinfonico con Campo di Marte e Triade, ma anche le ardite e prolifiche sperimentazioni dei Sensations’ Fix di Franco Falsini.
A livello regionale, colpisce il panorama caleidoscopico del Veneto, che va dalle ascendenze pop delle Orme all’abbattimento dei generi compiuto dagli Opus Avantra; seguono a ruota l’Emilia degli Acqua Fragile e dei Rocky’s Filj, le Marche dell’Anonima Sound (di un giovane Ivan Graziani) e degli Agorà, l’Abruzzo dei Preghiera di Sasso e dei Diapason, la Puglia jazz-rock dei Baricentro, la Sicilia dell’Era di Acquario e la Sardegna dei Salis e di Pierpaolo Bibbò.
Da quanto si può notare, un mosaico complesso e cangiante perché, ricercando, si scoprono sempre altre entità che, pur non avendo mai solcato la soglia discografica, riconfermano una linea di continuità con artisti – magari più noti – del territorio. Non sempre emergono solo profili epigonici o manieristici (come avviene per quelli che – un po’ ingiustamente – si condannano alla stregua di “minori”). Si avverte invece una progettualità non scritta, ma viva nei documenti sonori che restano l’unica testimonianza di un patrimonio culturale di tutti. E non solo degli appassionati, i quali – però – hanno il sacrosanto merito e dono della divulgazione (sovente un po’ troppo partigiana).
C’è stata l’Italia di Michelangelo, Dante e Verdi? Perché non ci dovrebbe essere anche quella dei milanesi Area, PFM e Rocchi, dei genovesi New Trolls, dei romani Banco e Goblin, dei napoletani Osanna e Napoli Centrale, dei veneti Orme e Opus Avantra, etc. etc.?
D’altra parte, come ci riconosciamo in un verso di Dante o Ariosto, possiamo pure identificarci in Impressioni di Settembre o in Gioia e rivoluzione. O no?
*articolo scritto dall’autore Riccardo Storti sulle pagine di Asterischi di Musiche (leggi qui)